giovedì 3 marzo 2011

Questa non sono io.
Non posso essere io, se lo fossi non me lo chiederei.
E poi non sono mai stata così, cos'è, sono impazzita?
Mai avrei messo questo vestito così stretto, quest'abito che asfissia e non mi fa muovere.
La stoffa è la mia pelle tirata attorno agli arti che non si muovono ma prima potevo farlo, me lo ricordo.
Nel mio corpo ci sono tante ossa, tubi fragili, pieni di alveoli che si allargano col tempo che passa, e nervi carichi di inedia, senza più un briciolo di volontà dalla scomparsa dei muscoli.
La morsa di questo indumento di carne secca e ruvida mi disturba, mi stizzisce e a volte mi costringe a pormi domande, mi obbliga a ricordare il vero, l'altro, il non più reale.

Allora sogno il mio paese e rido, quei piccoli muscoli funzionano, creano rughe, crepacci di terra arsa in estate, più scuri in fondo, nell'ombra.
Ma non ho niente da ridere al di fuori del sogno, tanto che ho deciso di vivere qui, dove nessuno viene a disturbarmi.
Se volo muovo le mani ma non le discosto dal corpo, mi abbraccio, devo sentirmi, le incrocio sul mio seno e so che ci sono. Mi avviluppo nell'aria sulle distese dei miei campi.
Una gamba è sotto l'altra, va bene, come fossero accavallate.
Ciclicamente una forza cerca di separarmi, vuole spalancarmi, mi sdoppia, filtra il dolore dalla stoffa lisa in più punti, quel cuoio stretto stretto e consunto, lacero, il collo del piede ormai mostra il suo scheletro, distese di piaghe sono strappi in questa veste odiosa che olezza di malattia.
Vorrebbero rammendare i buchi sopra le ginocchia e ricucire quella striscia sdrucita che segna la mia schiena, io vorrei solo togliermi questo orribile pagliaccetto di epidermide e forse allora potrei tornare a dissodare il terreno anche se è una fatica, portare il gregge al pascolo, bagnarmi i piedi nella sorgente dove si abbeverano le mucche, correre sull'erba e mangiare le coste di cardo spellate, bere con quel gusto amaro sulla lingua per sentire il ferro che lasciano sui denti.
Allora mi concentro su di un fiore, ieri non c'era e oggi ha trovato il coraggio di sfidare il terreno che si prendeva gioco di lui e non lo faceva uscire, me ne riempio gli occhi, il naso, mi sembra quasi che il suo odore sia il mio. Anche lui mi fissa e insieme aspettiamo la pioggia.
L'acqua fa tenere le zolle, inzuppa e ammorbidisce la pelle di cui sono vestita e riesco infine a libermene, nuda mi unisco alla terra, rinascono i miei muscoli e i tendini riprendono a tendersi dopo secoli di inattività. Le ossa assorbono una ad una le gocce che mi bagnano, ricrescono, la linfa che scorre in loro grida di gioia, i forellini tornano ad essere piccoli piccoli piccoli ed ho di nuovo la forza di tirarmi in piedi e stagliarmi sui resti di ciò che ero, pronta come sempre ad affrontare la mia nuova vita.
E specchiandomi nell'acqua del fiume, finalmente, mi riconosco.
Questa sono io, l'immagine perfetta della vita in divenire.

2 commenti:

  1. Forse ci ho letto quello che volevo io, ma questa rinascita dopo la sepoltura è veramente forte, dura.
    Bellissimo Claudio...

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  2. Grazie Pepster.
    Temo quel giorno, ormai troppo vicino, in cui ogni metafora andrà a farsi fottere e rimarrà una sola, unica verità.
    Quella che mi fa paura solo a immaginare.

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